Riflessioni sull’Italiano, sulle parole e puntini sulle i
Ben tornati!
Anno nuovo: ho aperto il cassetto dei buoni propositi e dei nuovi progetti e messo tutto in cantiere. Il lavoro è ripreso e ho ripreso posto alla mia scrivania preferita a guardare la neve che cade fuori dalla finestra e lentamente si posa.
È gennaio, ho già compiuto gli anni e ogni volta mi stupisco del miracolo invernale: quel gelo intenso che mette tutto a tacere.
Le pause invernali sono fatte per andare in letargo, mettere gli sci ai piedi e leggere un buon libro in compagnia di una tazza fumante di tè.
Così ho fatto e tra le mani, in queste vacanze, mi è passato L’Italiano che Resta di Gian Luigi Beccaria, edito da Einaudi. Una riflessione sulla nostra lingua: quello che è stata, quello che è e quello che diventerà.
La parola oltre la comunicazione
Nel mestiere da copywriter utilizzo l’italiano per comporre testi che hanno un obiettivo ben preciso: far conoscere, spiegare, comunicare, promuovere, vendere..
Ogni singolo sforzo è teso all’obiettivo e così rischio di dimenticare il resto. Il resto per me è la parola, la composizione della frase, la ricerca del sinonimo e del senso. Tutte cose di cui la lingua italiana è molto ricca. È per questo che quando ho scoperto questo volumetto non ci ho pensato due volte e l’ho comprato.
L’Italiano che è
Nelle sue riflessioni, Beccaria racconta della forma dell’Italiano come se stesse parlando di una torta deliziosa. Cita grandi classici della letteratura e si sofferma sulla trasformazione della lingua scritta, sempre più semplificata e meno ricca sia da un punto di vista del vocabolo che da un punto di vista sintattico e della costruzione del periodo.
In fondo, sempre più vicina alla lingua parlata.
Ma non sono pagine di accusa o di mera polemica. “Nonostante i lamenti resto fiducioso nell’italiano che verrà. Anche perché quello che resta è un’entità vitale e cospicua..” scrive l’autore.
L’Italiano che verrà
Forse i pensieri non sono sempre positivi, ma l’intento è di guardare al futuro in modo costruttivo. La lingua è un’entità viva, inutile costringerla a restare uguale. Le parole, il modo per dirle, il raccontare le cose, il costrutto delle frasi mutano nel tempo e oggi la nostra lingua è un bel calderone -mix.
Abbiamo preso in prestito un po’ qui e un po’ là. Dai dialetti regionali, per dirne una, che si mescolano alla lingua parlata e scritta senza che quasi ci facciamo caso. Come in Piemonte si usa dire “imbrogliare” per essere d’impiccio oppure l’espressione fare che + infinito che ha valore di immediatezza (faccio che andare, faccio che scrivere…). A Roma, invece, utilizzano espressioni del tipo “sta malato”, “all’angolo ci sta un’edicola”, stare + gerundio. E ancora, nella Capitale si usa iniziare le frasi con già e ancora, (già l’ho visto, ancora non l’ho visto…). Mentre al sud, sono di uso corrente espressioni come beato a te, salire le valigie, bussare il citofono.
Se da una parte le differenze linguistiche regionali si attenuano nel tempo, dall’altra alcune espressioni dialettali entrano a far parte della lingua correntemente in uso: cozze – mitili in Toscana, bidone – fregatura a Roma, buzzurro – rozzo sempre a Roma. E ancora: smammare dal napoletano, marpione dal sud, lavandino e portineria da Milano.
Così come alcuni termini stranieri sono stati assimilati nel vocabolario italiano. Soprattutto certa terminologia inglese per quanto riguarda alcuni ambiti lavorativi: digitale e finanziario. Basti pensare a parole come internet, social network, browser, cool, look, leader, selifie. Ma attingiamo con generosità anche da oltralpe: d’antan e bjiou.
Finché non è arrivata internet
E poi è arrivata internet e ha scombussolato tutti gli equilibri delicati dei linguisti più puri. È una cosa che ha a che fare con i social network, i testi sempre più corti per essere letti e consumati nell’arco di poco, e con l’immediatezza.
È l’immediatezza il punto. Tutto deve essere immediato in rete perché le persone hanno poco tempo e moltissime cose da leggere, guardare, likeare e condividere. E allora ecco che le frasi si riducono al minimo: soggetto verbo complemento oggetto, punto. Il vocabolario si epura dei termini troppo complessi, inusuali, difficili, e la lingua perde spessore, appiattendosi di colpo, sgonfiandosi.
Non c’è tempo per soffermarsi su una frase, per costruire un periodo. Non c’è tempo per leggere un testo lungo, per pensare al significato dei termini. Bisogna semplificare. È così la lingua scritta diventa sempre più simile a quella parlata. Perché oggi più che mai: scriviamo come parliamo.
Accadrà e sta accadendo. Certo di positivo c’è lo snellimento di certi testi, il cui burocratese ostico risulta difficile anche per persone del settore. L’accessibilità è un altro grande beneficio. Per contro un impoverimento della parola e forse anche del pensiero, perché scrivere comunque richiede un pensiero, una riflessione, sedersi a tavolino in silenzio, a tu per tu con se stessi. Ecco tutto questo forse un po’ mi manca nel mio lavoro.
Io che amo scrivere proprio per chiudermi in un silenzio intatto, io che amo guardare il foglio bianco strutturando il testo.
La pillola va giù
Tutto sommato la miglior medicina è sempre un bel libro. Perché l’amore per la lingua, per la scrittura arriva proprio da lì: la lettura. E il pensiero corre a un racconto per bambini che la zia mi leggeva sul camper. Mi è piaciuto talmente tanto che l’ho riacquistato a distanza di anni. Intitola Nel Paese di Mitologia di Gerald Durrell e tra i personaggi c’è un pappagallo davvero saputo custode del Grande Dizionario che ha il compito di declamare le parole desuete che mai nessuno utilizza, per far prendere loro aria e non farle cadere in disuso.